I Piceni, così chiamati al dir di Plinio, dal Picchio raffigurato sui loro vessilli,
abitavano l’antica Regione omonima dell’Italia Centrale.
Legati al popolo romano da un trattato di alleanza, sin dall’inizio del 3° sec.
A.C., per essere difesi dalle incursioni delle tribù confinanti, una volta che queste
furono dai Romani, soggiogate e distrutte, si trovarono stretti in una morsa dal
territorio spettante a Roma, onde tolto ai Piceni ogni libertà di movimento.
Forse il proposito dei Romani di fortificare il loro confine settentrionale fondando
a Rimini una colonia di diritto latino provocò l’insurrezione dei Piceni i quali
si sentivano forti dell’appoggio della potente città Umbra di Sarsina.
Ma il tentativo fallì perché furono soggiogati in due campagne nel 269 e 268 A.C.
per cui una parte del loro paese fu incorporata nel territorio romano col diritto
agli abitanti di cittadinanza senza suffragio e l’altra invece fu confiscata.
I più facinorosi furono deportati dal Mare Adriatico all’opposto Mar Tirreno nella
regione compresa tra la Campania e la Lucania che prese il nome di Agro Picentino,
al centro del quale fu edificata la città di Picentia.
I Picentini, quindi, piccola porzione dei Piceni si stabilirono sulla destra del
Sele e lungo il Golfo di Salerno propriamente nella valle del fiume detto pure Picentino.
Tra i più antichi abitanti della zona preesistevano sui monti popoli oriundi dei
pastori Sabelli e in pianura dagli Osci con profondi innesti Greci ed Etruschi.
Gli indigeni pur mantenendosi sostanzialmente agricoltori e pastori erano progrediti
e si erano tanto rafforzati da rendere dura l’esistenza ai Romani stessi che da
parte loro li consideravano popolazioni infide e pericolose.
Perciò i Romani, conquistati il Piceno, qui deportarono i nuovi popoli ribelli.-
Durante le guerre puniche i Picentini allettati dai precedenti successi di Annibale,
fecero alleanza con lui nella lotta contro Roma per vendicarsi della deportazione
subita e perciò furono annoverati tra i popoli miusorrumai cioè nemici di Roma.
Ma la sconfitta del grande Cartaginese nella seconda guerra Punica (204 A.C.) meritò
loro la punizione di Roma che li domò completamente per mezzo del generale Sempronio
Sofo che espugnò la loro capitale e li disperse per l’Agro tra il Sele ed il Sarno,
condannandoli a fare da messaggeri come già era accaduto ai Lucani ed ai Brunzi.
Allora i Romani per impedire che i Picentini macchinassero altre rivolte o congiure,
fortificarono il campo trincerato di Salerno dove inviarono, come era loro costume,
una colonia di veterani ai quali distribuirono i terreni della zona vigilata.
Intanto, i bellicosi Picentini mal sopportando la loro condizione servile quando
si accese la guerra sociale si collegarono con altri popoli italici sotto il comando
di Publio Presenteio Picentino ed inflissero una dura sconfitta ai Romani il cui
duce Perpenna fu fatto prigioniero.
Successo effimero però perché i Romani, guidati da Caio Mario Silla vinsero gli
italici (88 A.C.) ai “Campi Sillani”, forse l’odierna “Campigliano” e rasero al
suolo la capitale Picentia che era risorta dopo essere stata espugnata.
I superstiti furono costretti a disperdersi sui monti circostanti ed abitare nei
villaggi, mentre i nobili furono decapitati.- Su queste alture essi portarono i
loro DEI e tutti i sentimenti, le relazioni e gli affetti che li avevano legati
alla distrutta Cartagine.
Abbracciato poi il Cristianesimo, scelsero a Patrono proprio il Santo Vescovo e
Martire di Cartagine: “CIPRIANO”, che dette il nome a tutta questa Terra che al
tempo degli Dei falsi e bugiardi il nome prendeva da “VENERE”, la Dea Romana della
bellezza.
La pace che seguì alla distruzione di Picenza, all’eccidio degli uomini più rappresentativi
e alla dispersione del popolino, segno l’inizio di una spaventosa decadenza economica,
demografica e civile della popolazione dell’Agro Picentino.
I romani spingendo il popolo verso l’interno, tennero per sè i territori più fertili
e più vicini alla costa ed arruolarono nell’esercito tutta la gioventù.
Così languiva il commercio perché ognuno si limitava a produrre in rapporto ai bisogni
familiari, anzi si tendeva a liberarsi dai campi per la mancanza di manodopera e
tutto veniva ad accentrarsi nelle mani di poco provocando il latifondismo.
Con la calata dei barbari nei secoli V° e successivi, i conti incaricati di amministrare
i beni dei principi e di mantenere l’ordine, si circondarono di armati e costruirono
le loro case in posizioni spesso inaccessibili.
Queste case diedero origine ai castelli sorti dopo il V° secolo.
Fu proprio in questo periodo che venne fortificato l’antico castello costruito dai
romani detto CASTELVETRANO, il quale doveva servire ad impedire ai barbari l’entrata
nella Valle Picentina dalla parte occidentale, mentre i castelli di Olevano e Montecorvino
ne impedivano l’entrata dalla parte orientale.
Quando nella regione Picentina penetrarono i Longobardi consolidarono a tal punto
la loro conquista da dividere il territorio in numerosi distretti amministrativi
detti GASTALDATI.
Fu allora che la popolazione crebbe di numero e si rafforzò il cristianesimo nella
regione, per cui sorsero molte chiese e soprattutto monasteri che fungevano anche
da alberghi per i viandanti.
Dopo la conquista normanna verso la metà del XII° secolo si ebbe un nuovo ordinamento
amministrativo e ai Gastaldati successero di nuovo le Contee e con l’introduzione
del Feudo alla maniera franca divennero più stretti i rapporti tra il governo centrale
e i feudatari.
I feudatari di San Cipriano appartennero sempre alle primissime famiglie del Regno
il chè oltre ad essere indice della notevole rivelanza economica e sociale, costituì
anche un notevolissimo vantaggio per la popolazione.
Questa antica terra di San Cipriano, possedimento prima della Dinastia Longobarda
di “GUAIFERIO”, Principe di Salerno e, poi di nobilissime famiglie Salernitane,
passò quindi a Nicolò di Santo Mango, Signore dello omonimo e prossimo Castello,
il quale vi aggiunse poi gli altri Casali di Castiglione, Filetta e Pezzano, costituendo
in tal modo la “BARONIA DI SAN CIPRIANO”, nota nel tempo come la Baronia per eccellenza.
E’ gran merito dei Santo Mango aver introdotto in San Cipriano la nobile arte della
“lana”.
Durante la Signoria dei Santo Mango, visse alcun tempo in San Cipriano, il celebre
poeta ed umanista “JACOPO SANNAZARO”, fondatore dell’Arcadia, che in una delle sue
Elegie, descrive la sua infanzia tra i Picentini e la cui madre era appunto una
Santo Mango.
I Feudatari possedevano in genere il Castello e poche altre terre, perché la maggior
parte di esse erano passate all’UNIVERSITA’ , cioè alla comunità composta da tutti
gli abitanti di un centro, organizzata economicamente e regolata da usi civici in
armonia con le leggi del Regno.
Ciò apportò un grande benessere nella Baronia che visse così il periodo più florido
della sua esistenza.
Sorsero, infatti, in questo periodo molte fabbriche di drapperie e di stoffe,lanifici
e concerie di pelli ed erano famose nel Regno le “GUALCHIERE” dell’Agro Picentino.
Un documento del 1573 cita espressamente San Cipriano per l’imponente mercato di
manufatti di lana che venivano esportati in Italia e all’Estero, industria sopravvissuta
fino al secolo scorso e che era tanto famosa da ottenere dal RE FERDINANDO IV di
Borbone, per non confonderla con altre, il marchio di fabbrica D.O.C., del “CAVALLO
RAMPANTE”.
Dal 500 fino all’eversione, la Baronia di San Cipriano fu data in investitura ai
DORIA la cui aquila araldica è tuttora raffigurata sul Gonfalone del nostro Comune.
Tra il 700 e 800 San Cipriano ebbe parte notevolissima in tutti i moti di riforme
e rivolte politiche e sociali: i suoi cittadini di tutte le classi dagli intellettuali
agli artigiani dell’arte della lana, furono presenti nei moti del 1799, del 1820/1821
e infine nella rivoluzione nazionale del 1860.
E quando la storia del Comune si fuse con quella dello Stato unitario, San Cipriano
continuò ad emergere fra i Comuni della Provincia per gli indiscussi meriti dei
suoi cittadini che anche nel campo nazionale fecero noto il nome del piccolo natio
borgo che ebbe il vanto durante l’epopea risorgimentale di ospitare tra le sue mura
sempre generose e liberali perseguitati politici condannati per le loro nobili aspirazioni
di libertà ed indipendenza, come Silvio Spaventa che qui ebbe asilo e quiete ai
suoi travagli.
Così può ben dirsi che questo Comune vanta alle soglie del 3° millennio, nobiltà
di costumi, di azioni, di pensiero, di cultura che s’innesta in una tradizione millenaria
di alta civiltà, della quale era stata manifesta fioritura la superba schiera di
prelati, filosofi, teologi, poeti e scrittori che hanno in tutti i campi dello scibile
della cultura, dell’azione, illustrato il suolo natio.